Vera gioia è vestita di dolore.

Sono uno scrigno contenente sentimenti, vibrazioni dell’animo, desideri e attesa capace di trasformarsi in solitudine o percezione di qualcosa che manca e fa dolere, Lettere a Mattia scritte da Anna Maria Ortese all’amica Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamavano Mattia. Quando Ortese incontra a Bologna Mattia corre l’anno 1940 e sono tempi assai difficili, ma fra le due nasce una sorellanza ricca di confidenze come si evince  dalle epistole che contengono stati d’animo compositi e una ricerca di affinità capace di legare le “anime belle”.

Un viaggio dentro il sentire di una narratrice e giornalista che possiamo ricordare, in particolare, per la  raccolta di racconti, vicini al neorealismo, Il mare non bagna Napoli che vinse nel 1953 il  premio Viareggio  e fu pubblicato ne «I gettoni» di Einaudi. Fra i suoi libri  di tono favoloso e allegorico c’è L’iguana edito nel 1965 e da cui è stato tratto un film nel 2004, mentre di  un intimismo quasi cecoviano è  Poveri e semplici del 1967 che, nello stesso anno, vinse il premio Strega.

La pubblicazione con l’editore Adelphi, per la prima volta, di queste epistole a cura della studiosa Monica Farnetti reca nuova luce su Anna Maria Ortese  ed è stata possibile grazie alla collaborazione del nipote di Marta Maria Pezzoli, Stefano, che ha messo a disposizione l’archivio di famiglia.

Esse sono state fedelmente trascritte e si collocano in quel periodo in cui la famiglia di Ortese per differenti ragioni e in anni successivi si “scompone”. Già nel 1933 le muore il fratello Emanuele, nocchiere della Regia Marina, annegato in Martinica. Antonio, il gemello della scrittrice muore in Albania nel 1940 e nello stesso anno il fratello Raffaello è tenuto prigioniero a Cuba. Francesco, dopo la guerra emigrerà oltreoceano. In seguito dopo la morte dei genitori, il padre spesso era in viaggio per lavoro, vivrà con la sorella Maria.

Anna Maria cercherà quindi a partire dagli anni Trenta di allargare la sua rete di affetti attraverso legami amicali. Ortese ama la scrittura, se ne nutre, ma al tempo stesso si rafforza attraverso un dolore capace di recare conoscenza. Il suo animo evidenzia quindi i contrasti del suo carattere tempestoso, ma anche mutevole e desideroso di silenzi dove possa fiorire l’intuizione.

Nelle sue lettere scopriamo come ella accosti lo scrivere al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. Si svela al tempo stesso  il desiderio di un’armonia capace anche di annullare. Vera gioia è vestita di dolore, il titolo della pubblicazione, contiene questo suo credo. Ella scrive all’amica nel marzo del 1941: Mattia tu  hai dunque  l’obbligo di scrivere. Solo lavorando, dolorando, sbagliando si viene a conoscere il proprio volto.

Lo stesso concetto ritorna in un’epistola scritta nel mese successivo. Vedi vorrei vivere come su per giù come ho vissuto durante questo mio viaggio: incontri, fumo, discorsi vaghi. Non è possibile. Sono qui come una condannata. Lavorare. Scrivere. Certe volte questa condanna ha zone di gioia celeste; certe altre è chiusa, è soffocante e mi auguro presto di morire … Bisogna contentarsi di portare la nostra condanna su un piano di acutezza tale da cui si possa a volte sfiorare la gioia.

In queste lettere che coprono un arco di tempo che va dal 1940 al 1944, le due amiche mostrano la loro passione per la lettura e la scrittura e si scambiano riflessioni e pareri letterari. Parole di stima sono di incoraggiamento per entrambe. Sai Mattia che mi sei parsa un critico autentico?

                                         Patrizia Lazzarin