
I colori luminosi della riproduzione fotografica che vediamo nell’immagine qui sopra restituiscono il fascino e il mistero del pianeta Terra. Dalla foto degli astronauti della spedizione Apollo 17, viaggiando a ritroso nel tempo fino alle mappe di Abramo Ortelio nel 1570 e ancora più lontano di Claudio Tolomeo nel II secolo d.C., dare una forma e misurare il nostro pianeta è stato sempre straordinariamente affascinante. La mostra in corso nel palazzo Bomben della Fondazione Benetton, dal titolo La geografia serve a fare la guerra? parafrasando in maniera provocatoria il nome del libro del geografo marxista Yves Lacoste, edito nel 1976, rivela lo spirito conoscitivo di questa materia e la sua ricchezza di contenuti. La Fondazione Benetton dal 2012, in partnership con la Direzione Beni Culturali della Regione Veneto, ha esaminato nell’ambito del progetto Atlante Veneto, circa novantamila cartografie e trentamila atlanti presenti nella regione. Molti dei materiali bibliografici e cartografici del periodo che corre fra il XIX e il XX secolo sono stati così resi fruibili per questa rassegna che si articola in tre aree tematiche: Rocce e acque, Segni Umani e Carte da guerra. In mostra diventano visibili documenti storici e opere d’arte uniti da relazioni e rimandi che ci fanno riflettere su questioni assai interessanti. Il punto di partenza è stato il Centenario della Grande Guerra, diventata Prima per esigenze di cronologia e che rivelò agli occhi dei contemporanei, da subito, la sua forza dirompente e distruttiva. Il percorso dell’esposizione, nel veicolare il significato della geografia, dà ampio spazio a questo argomento e ai documenti che delineano il processo di crescita e di formazione dello Stato italiano. Aspettative e convinzioni di patrioti e geografi si traducono nella realizzazione di mappe che disegnano in parte un nuovo futuro, come nell’Atlante della Guerra della casa editrice De Agostini curato nel 1916 dai geografi Luigi Filippo De Magistris (1872-1950) e Achille Dardano (1870-1938). Nel frontespizio della pubblicazione, trascurando i confini politici reali, le linee e i colori che dividono gli Stati sfumano d’intensità per riunire le popolazioni italiane presenti nei territori vicini: l’Istria, i paesi della costiera della Dalmazia e le città di Trento e Bolzano.

Istituto Geografico De Agostini, 1916
La carte geografiche diventano per noi una lettura di un tempo e di un luogo, un racconto che si avvale di molti saperi come scrive il curatore della mostra Massimo Rossi. Le mappe marcano, delimitano. Confini reali, naturali e/o politici? Nasce spontanea la domanda. In natura non esiste chiusura mentre c’è continuità tra mari e terre. Il problema dei confini, l’esigenza di delimitare è soprattutto un fatto culturale e politico.

Nella cultura occidentale, spesso per ragioni divine o naturali, alcuni luoghi sono stati considerati come naturalmente destinati a un popolo. A cominciare dal Trecento nelle opere di Dante e Petrarca per l’Italia si indica un confine naturale a nord nella catena alpina. Da allora si è mantenuto nei secoli un grande anelito per unire le genti che per tradizioni e lingua si potevano definire italiane. In epoca illuministica, in opposizione alla concezione degli stati assoluti si venne formando l’idea di uno spazio naturale dove il concorrere di alcune condizioni climatiche, idrografiche e l’esistenza di alcune specificità come l’etnia e la lingua definissero un’area in maniera univoca, fornendole una fisionomia propria. Nella seconda metà dell’Ottocento la geografia accademica in Italia si occupò di creare un linguaggio scientifico specifico della materia. In questo ambito l’Italia venne definita una regione integrale dove cioè si trovavano riunite insieme molte delle caratteristiche che fanno di un luogo uno spazio “nazionale”. Il ruolo avuto dai cartografi italiani nel comunicare attraverso le cartografie un’idea di nazione è stato importante. Potremmo definirla una vera e propria campagna pubblicitaria dalla potente forza di rivelazione. In mostra possiamo ammirare ad esempio la Carta dell’Italia del 1842 del toscano Attilio Zuccagni Orlandini che distingue a Malta un‘Italia inglese e in Corsica un’Italia francese o la tavola dell’Italia del 1844 di Celestino Bianchi. E tornando ad osservare il frontespizio dell’Atlante della Guerra del 1916 notiamo come lo scudo di Casa Savoia sia unito con il nastro tricolore agli stemmi di Trento e di Trieste. Nel volume, in sintonia con gli intenti divulgativi della Reale Società Geografica si argomenta da un lato dell’acquisto di territori che appartengono all’Italia per affinità fisiche, linguistiche ed etniche e dall’altro dell’eredità geofisica e culturale di aree già appartenute alle repubbliche marinare. Il concetto di nazione prende corpo così come una costruzione sociale collegata al suo tempo e le carte geografiche diventano espressione di questo divenire storico.

La carrellata di figure istituzionali, fra cui i sovrani, sopra la mappa di un’Italia che comprende una striscia di terre ad Oriente, lungo la costa dalmata, lega il significato della cartografia agli intenti politici di una dinastia. Qui sotto la pubblicazione del giornale Fanfulla illustra tale connubio. La mappa diventa strumento politico e specchio delle aspirazioni del regno italico.

Istituto Geografico De Agostini, Novara 1915
Quale valore aggiunto assegnare alla geografia? Nella conferenza di Pace svoltasi a Parigi nel 1919 il geografo friulano Ricchieri si lamentò della scarsa presenza di geografi e dell’assenza assoluta di quelli italiani nella definizione del nuovo assetto politico. Ricchieri constatò amaramente che il governo italiano: preferì agire senza preoccuparsi dei competenti, presentarsi anzi vergine di veri studi alla Conferenza di Parigi, come pur troppo apparve nel modo stesso col quale vi presentò e trattò a nome dell’Italia le questioni anche d’importanza capitale sia per l’assetto dell’Europa, sia per il nostro Paese […] l’impreparazione, la leggerezza, la confusione d’idee in fatto di geografia e perfino di topografia si rileva pur troppo negli stessi documenti ufficiali. Una mancanza che fece perdere delle occasioni. Il geografo contemporaneo Massimo Quaini ha un’idea molto forte dell’utilità della geografia: da Carlo Cattaneo in poi, la geografia, pur nel suo percorso ondivago, ha le carte in regola per essere lo strumento più efficace per costruire il sapere territoriale necessario per vincere le sfide che crisi e squilibri spaziali crescenti ci pongono in forme sempre più aggravate, cominciando dal livello locale. Secondo il geografo Patrick Geddes (1854 -1932) essenziali sono gli osservatori civici del paesaggio e del territorio, dove veramente la geografia diventa un sapere dei cittadini per un’altra società, un altro territorio. Le mappe storiche presenti in mostra ci mostrano anche il significato della toponomastica e come i nomi dei luoghi in lingua tedesca assumessero poi nomi diversi nei territori irredenti come ad esempio il tedesco Sterzing diventi la Vipiteno italiana. Potremmo definirlo quasi un battesimo d’italianità. Possiamo vedere esposte le edizioni originali dei tre prontuari che con Regio Decreto del 1923 fissarono tali modifiche. Durante la prima guerra mondiale si assiste anche al cambio di genere del fiume Piave, diventato il e non più la Piave. Molti articoli uscirono sui giornali, nel biennio 1917 -1918, per difendere o negare la femminilità del corso d’acqua. Vinse la forma maschile, adottata dal nostro Comando Supremo, perchè ormai nell’uso dei milioni di combattenti che hanno col loro valore reso questo fiume sacro per sempre all’Italia. In difesa della femminilità del Piave nel 2015 è stato stampato un libro del sociologo Ulderico Bernardi che porta il titolo Cara Piave. Il Piave, fiume quasi mitico nell’immaginario collettivo, è ricco di storie come quelle che raccontano di tecniche dimenticate che misurano lo scorrere del tempo trascorso. Scopriamo l’esistenza di colombaie mobili sul fronte del Piave e in che modo lo Stato Maggiore avesse coinvolto le popolazioni a fornire preziose informazioni attraverso questi volatili addestrati a ritornare nei luoghi di nascita. Millecinquecento colombi furono lanciati durante la battaglia di Vittorio Veneto nel 1918 e furono essenziali specialmente quando tutti gli altri mezzi di collegamento erano in quel momento bloccati.

(dall’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’esercito), Roma
E la bellezza, accanto all’utilità, delle cartografie appare in mostra nelle opere come i tappeti di produzione afghana, come quello intitolato Mappa mondo. Gli atlas carpets con le riproduzioni del nostro emisfero hanno una lunga tradizione nel paese orientale e spesso furono e sono realizzati da donne afghane, in differenti declinazioni, dove compaiono scritte arabe, cirilliche, latine e in alcuni anche armi e arei. Fra le realizzazioni artistiche in questo settore, ricordiamo anche i tappeti di Alighiero Boetti cuciti dalle donne afghane su progetto dell’artista torinese.

Patrizia Lazzarin