The Bridge: un ponte ideale per congiungere la Polinesia francese, distante più di 4000 km dalla Nuova Zelanda, la terra di Yuki Kihara, per simboleggiare come l’espressione artistica possa diventare spazio di confronto di diversi saperi e, più in generale, mostrare la diversità come caratteristica essenziale dell’essere umano e della natura. Dentro la Biennale di Venezia, negli spazi dell’Arsenale che ospitano le sue creazioni, mille sguardi di donne e di uomini, vestiti di un colore acceso, ci osservano colti in posa, mentre sono stesi, seduti e in piedi, all’interno di paesaggi dove la natura fiorisce rigogliosa e le acque nel loro scorrere trasmettono una sensazione di freschezza.
Sono le immagini create da Yuki Kihara che con le sue opere pone domande “sfrontate ed audaci”: cosa significa decolonizzare? Come la comunità locale può replicare al racconto ufficiale? Come potrebbe la ricerca d’archivio diventare azione. La speranza e l’ironia potrebbero infine riscrivere la storia di quel trauma? Le foto della sua produzione artistica intitolata Paradise Camp trascinano davanti alle nostre pupille un alternativo queer world, pensato dal punto di vista di una Fa’afafine ( termine samoano per indicare le persone di sesso maschile che adottano comportamenti e caratteri di genere femminile) e nel loro fascino ipnotico e nella loro umanità, riscrivono la colonizzazione. La sua creatività si misura con quella del pittore francese Paul Gauguin, quasi come una risposta che si tramuta in un eco che viaggia nel tempo. Le due Tahitiane di Gauguin si reinventano. Le tinte forti di pelli, occhi e capelli delle due Fa’afafine fanno da felice contrasto con le vesti rosa fucsia e verdi che le coprono in parte. Una di loro porta una ciotola con i rambutans, tipici frutti dolci di quei luoghi e un’altra tiene in mano dei fiori bianchi dal gambo corto. Attorno a loro fiorisce una natura rigogliosa.
Questa immagine fa parte di una serie di dodici tavole fotografiche, ma Paradise Camp comprende anche dei talk show dove si commentano con ironia alcuni dipinti di Gauguin. Il lavoro dell’artista samoana si arricchisce di ricerche d’archivio su poster, su rari libri di esploratori del diciannovesimo secolo, su pamphlet e ritratti di colonialisti e insieme di materiale di attivisti.
Queste componenti si fondono insieme per narrare storie di invasioni e di pregiudizi. I dipinti del pittore francese selezionati da Kihara sono quelli che lui realizzò negli anni dal 1891 al 1903 durante la sua permanenza nell’isola di Tahiti e nelle Isole Marchesi. Paul Gauguin, per lei, incarna l’idea di un paradiso terrestre dove lo stereotipo serve a volte a mascherare la violenza coloniale e l’oppressione. Kihara problematizza quella che ritiene un’eredità troppo ingombrante nel definire quest’area del Pacifico e ricostruisce nuove immagini e rapporti di e con gli abitanti di tutte le comunità di Fa’afafine.
Essi sono fotografati in villaggi rurali, lungo fiumi, spiagge e vicino a chiese o a case abbandonate, che appartengono a luoghi diversi delle isole Samoa. Le storie narrate riescono anche a capovolgere gli stereotipi di genere. L’artista non vuole tuttavia spazzar via con un colpo di spugna quel tipico sguardo maschile che ritroviamo nei quadri del francese, ma porre delle alternative allettanti che nascono anche da un legame fra la natura, il paesaggio e chi vi abita e si traduce in visioni nuove. Luoghi splendidi dove l’uomo può solo con l’immaginazione, e solo in parte, sperare di afferrarne la molteplicità che comprende svariate forme di bellezza e dolore, come scrive nei suoi versi anche il famoso poeta e scrittore samoano Albert Wendt in Towards a New Oceania. Kihara nelle sue immagini forti, ricche di colore, sfoca la divisione binaria fra paradiso e apocalisse, fra uomo e donna, fra realtà e finzione e fra selvaggio e uomo civilizzato, per suggerire altri sguardi sul visibile.
Patrizia Lazzarin