POETI DELLA MAREA. COME SU UN TAVOLATO …

L’ascolto della musica suonata da un’arpa celtica può restituire alla memoria il movimento ritmico della Natura ed evocare il suono che nasce  dal  dondolio  delle maree che, nel loro ritorno, levigano le rocce e fanno riemergere metaforicamente, su antichi tavolati, la Storia narrata dai poeti. Le vicende e le emozioni descritte appartengono alle voci di lontani cantori, i bardi gallesi, e  i loro versi  ci riportano integro lo stupore  di uomini vissuti dal VI al X secolo, nel loro cammino fra le acque e su terre, mentre colgono  e fanno proprio il respiro del Cosmo.

La magia, quasi una favola, scivola sui versi dei componimenti che la maestria di Francesco Benozzo, professore di filologia e di linguistica romanza all’Università di Bologna, autore di oltre 700 pubblicazioni e direttore di tre riviste scientifiche internazionali, ci dona nel libro “I poeti della marea. Canti bardici gallesi dal VI al X secolo”, pubblicato  dalla casa editrice Forum. I primi versi dei componimenti ci immergono dentro il gioco della metamorfosi e della trasformazione, come in “Fui un salmone blu, fui un cane, fui un cervo, … oppure nei colori e  nei  profumi della Natura e dell’essere umano: “Belli i frutti nel tempo dei raccolti”, o se vogliamo, nella Luce che diventa Visione e nel Sublime, come in  “Una rocca splendente sospesa sul mare” e nel”L’incandescente sorge”.

Il testo è accompagnato da un CD, dove l’autore interpreta suonando l’arpa bardica alcuni dei canti da lui tradotti, cercando come egli stesso afferma nella prefazione, “di far riemergere l’atmosfera di fondo, il paesaggio sonoro che questi componimenti creano e in cui vivono”. L’arpa è stata ricostruita dal maestro d’arte Michele Sangineto, sulla base di un modello visibile in miniature del X secolo che mostrano questo strumento nella sua antica foggia gallese. L’autore del libro ci presenta la prima traduzione italiana dei testi tramandati dei primi bardi: essi sono tre dei Quattro antichi Libri del paese di Galles: il Libro di Taliesin, il libro rosso di Hergest e il Libro nero di Camarthen.

“Una poesia della Natura”, dove,  come scrive nel Promemoria, Gianni Scalia, amico dell’autore,   emerge chiara la relazione divinatoria e mantica dell’uomo con gli elementi del cosmo. I canti  sono ricerche sul segreto  dell’Essere  che sembrano diventare già saperi da raccontare, dove la ripetizione di vocaboli è  il leit motiv che riporta suoni  e significati dentro lo scorrere del tempo. I bardi della tradizione celtica , come spiega il professor Benozzo, candidato dal 2015, al premio Nobel per la Letteratura,  erano uomini del mare e delle scogliere, cantori diversi dai “poetae” latini e dai compositori arabi pre-islamici delle “qaṣīda, più simili ai professionisti della parola dell’area finno-ugrica e circumpolare”.

Egli prova a immaginarli come  persone sempre in viaggio che lottavano per trasmettere valori fondamentali, esponendosi al brutto e cattivo tempo, in cammino sulle foci degli estuari e nei piccoli villaggi dell’entroterra, con le alghe spesso a fare un tutt’uno con le caviglie. Per secoli rimasti sconosciuti agli altri popoli, seppero salvare la loro lingua.

  La loro scoperta da parte dell’autore avvenne alla fine degli anni 90’, a metà del decennio da lui vissuto in Galles per studiare le lingue celtiche. Fu allora che pensò di tradurli e furono pubblicati nella Rivista “ In forma di parole” di Gianni Scalia. Successivamente l’incontro con Antonella Riem Natale che cura la collana “ALL” della casa editrice Forum, che propone scritture sia creative, sia di critica letteraria e di linguistica che attraversano i confini interdisciplinari e mirano a creare un laboratorio sperimentale, artistico e poetico di carattere multidisciplinare, ha creato l’occasione   di pubblicarli  nuovamente, mantenendo la leggibilità  quasi simile al formato dell’antico testo e favorendo così anche la diffusione dei loro contenuti, fra un numero maggiore di studiosi e lettori innamorati della Poesia.

I bardi, il cui fascino viene ricreato quasi solo al nominarli, avevano il compito originario, fin dall’epoca pre-romana, di tramandare le genealogie dinastiche della casta militare autoctona della Britannia, ma in seguito alle trasformazioni sociali e culturali, iniziarono a muoversi di villaggio in villaggio confrontandosi direttamente con la potenza e la bellezza degli scenari  che incontravano. Capaci di recitare a memoria migliaia di versi che parlavano di  vicende storiche realmente accadute, sarà poi il paesaggio naturale ed umano  a permeare i loro versi. L’ascolto del cosmo non è simbolico, ma un ponte verso la sua comprensione. Esso sembra riaffiorare dall’ anima del cantore, ma al tempo stesso è la proiezione verso cui il suo spirito si allarga e tende.

Dal Talyessin per quasi un “assaggio” della loro ispirazione lirica,  cito alcuni versi che compaiono all’inizio del Canto VIII. “Io fui in molte forme prima di quella attuale: fui una spada sottile ben visibile a tutti, fui una goccia nell’aria, fui una stella opaca, fui una parola tra le lettere, fui un libro primordiale, fui la luce delle torce per un anno e mezzo. Fui un ponte che unisce … Fui una rotta, fui un’aquila … fui una goccia nell’acquazzone, fui un’arma nella mano …”  Poi  trascrivo un breve carme dal Libro rosso di  Hergest, il nono: “È bianco il gabbiano, è smisurata l’onda; è maculata la gemma del frassino; è grigia la brina, è audace il cuore. È verde la terra, è senza vergogna il vile; è nella mischia il condottiero; è spesso accusata la donna cattiva”.  La ricerca del Bardo era dentro la Vita per sentirne il respiro, dentro la sua Forza per cercarne i valori che non muoiono. Essa diventa messaggio di pace anche per noi mostrandocene la preziosità nelle parole nitide. Potremmo pensare ad una Rinascita, quella dell’uomo contemporaneo.

                                                                                                   Patrizia Lazzarin