LA FOGLIA DI FICO. STORIE DI ALBERI, DONNE, UOMINI

Quali eventi hanno modificato il destino del nostro lontano progenitore che cacciava e raccoglieva frutta e semi prima di iniziare a coltivare la terra? Come e dove saremmo ora, se questo non  fosse avvenuto, e gli esseri umani avessero continuato a peregrinare nel mondo, ignari delle fatiche della vita “sedentaria”? Qualcosa è successo in particolare nell’ultimo secolo, capace di  ridisegnare profondamente le nostre sorti, ma lasciamo ai lettori del libro La foglia di fico di Antonio Pascale, cercare di scoprirlo fra le pagine del suo recentissimo libro che si è classificato secondo nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello 2022.

Il sottotitolo: Storie di alberi, donne, uomini con le preziose illustrazioni di Stefano Faravelli ci cala nella sfera magica della botanica. Camminiamo fra le  piante e gli alberi con i quali, dentro la narrazione, facciamo perennemente i conti come se da loro ricevessimo non solo l’ossigeno per noi fonte di vita, ma ci donassero insieme una relazione particolare, molto particolare, fatta di significati e rimandi che, svelandoci i loro segreti meno noti, li fanno diventare tremendamente amici. I protagonisti sono in ordine di apparizione: il cactus, il faggio, il ciliegio, il tiglio, il pino, gli agrumi, l’olivo, la quercia, il leccio, il fico ed il grano. Le loro qualità, anche le più  spinose come quelle che sono proprie della prima pianta, ci consegnano ai ricordi dell’autore: frammenti di vita di parenti ed amici, affetti, profumi e sapori della Terra.

Lo scrittore e giornalista ha la formazione del botanico che riversa con acume dentro le righe del racconto ed essa  diventa la nota strumentale del suo, potremmo definirlo, canto alla Natura. La Natura possiede una sua intrinseca bellezza ed un proprio valore, i cui tratti non sempre sono facili da individuare nello sconquasso del mondo di cui Antonio e il suo caro amico Antonino, spesso cercano il senso, con la vista quasi “offuscata” anche dalle esperienze difficili dell’adolescenza. L’ironia ci diverte nel primo capitolo anche se i nomignoli, fra cui quello di camorrista,  con cui l’amica di Antonio, Sara, facendoci intimamente “sogghignare”, lo sdoppia e tripla nel definirlo, sembrano già annunciare “l’humus” sociale  proprio di una regione come la Campania, o meglio di città come Napoli e Caserta, dove i codici di sopravvivenza della malavita  sono spietati  e dove per poca roba si fracassa la testa ad uno che è  poco più di un bambino.

Certamente quando noi ci fermiamo a sostare sotto quegli alberi, come il tiglio o il faggio, tutta la bruttura del mondo scompare come nebbia evanescente e noi, nella stessa maniera dei personaggi che popolano il racconto, recuperiamo la bellezza di un cielo sereno e di un sole che ci scalda.  Ritroviamo i colori del foliage del faggio, lungo montagne che, anche se non appartengono ai paesaggi che sono gli sfondi noti delle nostre passeggiate, conservano intera la magia della Natura amica che, nella sua maestosità e varietà, sa mostrarsi  al tempo stesso semplice e misteriosa. Le piante sono ricche di simbolismi e ad ogni tappa del viaggio, che è anche un percorso di conoscenza, viene rivelata la sua storia nel tempo, la sua evoluzione, se c’è stata, ed il suo peregrinare nelle regioni dei continenti terrestri per relazionarsi con altri uomini.

Il romanzo si svela  come trama di relazioni che donne, uomini e bambini da sempre instaurano con le piante.  Pianta anche come protezione, come quella foglia di fico che servì a coprire la nudità e la fragilità di Adamo ed Eva, che cercando di nasconderle,  rivelavano  la perdita della comunione con Dio. L’uomo e il suo senso sono temi  con cui  il dotto Antonino, ricercato studioso e conferenziere,  spesso si confronta con Antonio, riflettendo su Kafka  e sul significato della vita, una matassa così confusa che la modernità con le teorie del Post Human, di cui si fa portavoce anche la figlia, sembra ancora più scombinare. Quale ruolo ha l’amore, quello normale, per intenderci, nell’avventura della vita? Sapranno trovare una risposta Antonio od Antonino? E il problema della solitudine e del nostro rapporto con gli altri?  Forse nel 2050  diventeremo 10.000 miliardi …

Forse serve un tempo specifico e ancora meglio un luogo per riflettere, uno spazio d’ombra come quello che il tiglio sembra offrire a chi si ferma in prossimità del suo tronco. Scrive Antonio Pascale: “I tigli fanno ombra. Vengono piantati per quello, oltre che per il profumo dei fiori. Certo la corteccia è stata usata per vari scopi ( stuoie e cordami) e anche le foglie (usi medicinali e lisergici), ma siccome è un albero resistente al caldo, alla siccità, all’inquinamento e ha lunghe foglie cuoriformi, viene piantato appunto perché le foglie proiettano cuori e cuori. L’ammasso di cuori crea un’ombra ampia.” L’amore può avere i colori di Cristina, la sua voce, i suoi desideri … L’amore ha la fragilità dei fiori del ciliegio, un albero i cui fiori sono cosi belli come dice nel libro, il padre di Antonio che “ sono le prove tecniche di primavera, so’ bianchi ma colorano tutto, altro che tv a colori”. Siamo nei primi anni 70’, quando ad avere il televisore a colori erano pochi ed era  l’aspirazione di molti. “Ma le ciliegie” dopo l’inverno, dice Pascale” “sono un invito alla vita dopo tanta attesa della vita.” Vita come una nuova stagione, come un altro amore che si schiude con il ramo di ciliegio da portare alla donna amata o cercata.

Pascale sa restituirci il sapore dolce dei ricordi, la loro vivezza, pur lamentando il protagonista del romanzo poca memoria, come quando narra del ritorno del nonno a piedi dal Nord verso la Campania. L’immagine ci mostra un sole che sta tramontando, fra le macerie e i buchi provocati dai bombardamenti, simile a nella sua luminosità a un campo di arance, il cui colore si confonde nella dolcezza del loro sapore. I “purtualle”, in dialetto campano sono le arance, che il nonno materno portava a casa dal mercato e sistemava poi per fare una piramide. “Le arance univano Nord e Sud, Piemonte, Campania e Sicilia. Nessuno capiva i piemontesi – diceva mio nonno quando ricordava la Seconda guerra mondiale – tranne quando parlavano di arance, anche loro le chiamavano Portugal”. Pensavano  anch’essi che venissero dal Portogallo, portate fin lì dagli Arabi.

                                                                                       Patrizia Lazzarin